Anonymous blocca la Polizia

Pubblicato il 27 febbraio 2012

Ennesimo colpo di Anonymous. Il gruppo di hacker ha letteralmente bloccato il sito della Polizia di Stato. Poliziadistato.it è infatti irraggiungibile da ore. Alcune fonti sostengono che l’attacco sia collegato alle proteste No Tav.

432074 396528810363762 269358643080780 1801347 390327077 nLa stessa cosa era avvenuta al sito della Polizia Postale italiana lunedì 25 luglio dell’anno scorso, con conseguente pubblicazione di migliaia di documenti. «Questo è un richiamo anche per l’attacco diretto ai nostri colleghi che nei giorni scorsi sono stati arrestati sia in Italia, che in Europa e negli Stati Uniti», scrissero sul loro sito in riferimento agli ultimi arresti che hanno coinvolto il gruppo.

Fu lo stesso Anonymous a spiegare nel dettaglio la dinamica e lo scopo di quell’attacco, attraverso un messaggio pubblicato sul sito: «Oggi abbiamo ottenuto l’accesso al vaso di Pandora delle agenzie anticrimine Italiane e crediamo che questo sia l’inizio di una nuova era di butthurt per la possente Homeland Security Cyber Operation Unit in Europa. Quindi abbiamo deciso di diffondere tutto quello che hanno nella rappresentanza italiana, ovverosia una task force con vaste risorse chiamata CNAIPIC. Oggi – aggiunge la nota – riveliamo innumerevoli file (il totale stimato dei dati è oltre 8Gb) da queste agenzie che abbiamo ownato, e per essere chiari tutti questi dati/documenti erano archiviati sui server del CNAIPIC, deputati a contenere le “prove” raccolte nelle analisi forensi. Il nostro movimento – aggiunge – sotto il nome di Antisec racchiude ad oggi moltissime crew che supporteranno le prossime operazioni Italiane».

Sabato scorso invece, Anonymous aveva momentaneamente abbandonato i computer per scendere in piazza a Denver. Il giorno prima, era stato infatti emesso un comunicato piuttosto diretto:

«Amici, LulzPirates, Anarchici e Anons: unitevi ad Anonymous e una serie di attivisti determinati si riuniranno alle 7 di pomeriggio di sabato 25 febbraio per una marcia contro la brutalità della polizia diffusa in tutto il mondo. Oggi viviamo in stato di polizia di stampo oppressivo. Gli agenti non agiscono più per il bene delle persone, per la salvaguardia della nostra libertà e per la difesa dei nostri diritti da quelli che li violano. Oggi la polizia è il lungo braccio violento dello stato. Si tratta di bulli che picchiano i cittadini con i loro stumenti di tirannia come il manganello, lo spray al pepe, i pugni, le manette, il taser».

Per ora, invece, ancora nessuna dichiarazione da parte del gruppo di hacker, ma sicuramente, presto sapremo qualcosa di più e non è da escludere che il comunicato succitato fosse il preludio di questa azione, fomentata dalla drammatica situazione anti-Tav.

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Brutte scarpe che conquistano il web

scarpe“Scarpe de merda”, un nome che è tutto un programma. E’ l’ultimo astro nascente del web, un sito nato da poco ma che è già sulla bocca di tutti e sta riscuotendo un successo notevole. Come avrete già intuito, si tratta di una raccolta di immagini di scarpe brutte o comunque discutibili a cui tutti possono potenzialmente partecipare, perché basta inviare i propri scatti alla mail ufficiale del sito, che però si ripromette di pubblicare solo le calzature più agghiaccianti.

Sono foto per lo più rubati in strada, in metro, sui mezzi pubblici o dove capita. Ad ogni scarpa è associata una didascalia ironica ma fatta con tono aulico tipico di diverse riviste fashion, un vero spasso insomma.

Qualche esempio? C’è la signora in stivali beige, così illustrati: Stivale born ready in nappa colore rosa del deserto con inserti in astrakan e fibbia, tacco 7. Esci per far due ciacole in mensa con la Teresa e ti puoi ritrovare a dover prendere un vitellino al lazo o di sopportare l’escursione termica del deserto, dopo essere stata rapita da un beduino. Bien vivre: ricordate, il karkadè macchia.”

Si continua col mocassino maschile: Dal prêt-à-porter al Pronto Legno Vivo ™, mocassino classico da uomo di facile manutenzione. Mix & match: il calzino bianco corto in filo di Scozia e un contratto di lavoro a tempo indeterminato al catasto di Bari” e via discorrendo, un vero e proprio bestiario delle calzature.

Non si sa bene chi sia l’ideatore del sito, che si autodefinisce, sempre ironicamente “di forte denuncia sociale” ma una cosa è certa, ha avuto un’intuizione davvero geniale.

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Zucchetti: la Tav dovrà passare sui nostri corpi

NO TAV 04Non avevamo capito quanto fossimo preziosi, noi cittadini oppositori all’alta velocità, ai fini della sua costruzione. Ieri mattina si è verificato il primo atto di una nuova strategia, basata sul pieno utilizzo anche delle nostre risorse umane. La TAV dovrebbe infatti essere costruita coi nostri corpi, passando letteralmente sui nostri corpi. Violentando quindi non solo la natura della Val Susa, oltre che ogni normale regola di buon senso, ma anche i nostri stessi corpi: passando sui corpi dei valsusini, sui corpi di tutti coloro che opponendosi a quest’operazione militare – che ormai nulla ha più a che vedere con un cantiere – verranno calpestati non solo nei diritti ma anche di fatto, nel fisico e nell’incolumità. Saremo noi, che ci opporremo fino all’estremo, che quindi dovremo costituire i piloni a sostegno e il pavimento del buco TAV nella montagna. E’ una nuova fase, della quale abbiamo avuto chiara dimostrazione in questi giorni e soprattutto il 27 febbraio.

Ieri notte è avvenuto un blitz militare per l’allargamento del cantiere TAV in Valle Clarea, pressi di Giaglione, Valle di Susa. C’era un gran numero di forze dell’ordine e militari, ruspe, mezzi militari, saliti anche mentre sabato 75000 persone manifestavano pacificamente contro quest’opera assurda, inutile, dannosa, costosa. Invano! D’altronde non conoscevano le nuove disposizioni: il primo traforo ferroviario realmente umano, basato cioè sul rischio e sulla morte immediata della popolazione, che si trasforma, quando va bene, in corpo ferito da sgomberare per andare avanti meglio e più speditamente.

La cieca convinzione di portare avanti un allargamento del non-cantiere ha visto l’opposizione nonviolenta dei pochi ragazzi che erano presenti sul posto. La grande mobilitazione del movimento NOTAV sarebbe infatti dovuta avvenire – dopo la manifestazione di sabato – nuovamente la notte fra lunedì e martedì, con una fiaccolata notturna ed una permanenza sul posto ad oltranza. Gli anziani della valle erano disposti ad incatenarsi agli alberi, ad oltranza. Avendolo probabilmente saputo, gli invasori hanno deciso di provare a forzare i tempi.

Luca Abbà, 37 anni, agricoltore della Valsusa, molto conosciuto in Valle per la sua fiera ma nonviolenta opposione alla TAV, si è arrampicato allora su un traliccio per provare ad opporsi alla cieca determinazione degli invasori. Sentivamo la diretta della sua voce alla Radio del Movimento (Radio Black-Out). Diceva, rivolto a quelli di sotto: “se non la piantate, io da quassù non me ne vado, avete capito?”. Poi, rivolto agli ascoltatori: “Ciao, vi saluto, UN POLIZIOTTO-ROCCIATORE mi sta incalzando da sotto”.

Gli invasori lo hanno incalzato da sotto, spingendolo a salire più in alto. E’ rimasto folgorato dall’alta tensione. Sotto il traliccio non era stata posta alcuna protezione prima di incalzarlo. Avevano molta fretta, si vede, ed il corpo di Luca serviva per i “lavori in corso”. Luca è caduto a terra con un volo di molti metri. Le sue condizioni sono apparse subito gravissime. I soccorsi, ritardati dai blocchi delle forze dell’ordine, hanno molto tardato ad arrivare. Alla fine è stato soccorso, intubato e trasportato all’ospedale CTO di Torino.

Nemmeno dopo la caduta e le gravissime condizioni in cui versava Luca, c’è stato uno stop dei lavori. Questo appare incredibile, in spregio ad ogni norma di sicurezza e di prudenza, oltre che di rispetto. In quale cantiere, anche un non-cantiere fortino militare, non si fermano i lavori in caso di grave incidente?

Luca è grave e la responsabilità sono da attribuire esclusivamente a chi ha ordinato ed eseguito il blitz, mettendo, come poi è stato, a repentaglio la vita delle persone. Luca Abbà è all’ospedale a Torino. E’ stato colpito da elettricità a media tensione, muove le gambe, è cosciente e orientato, ha una sospetta lesione interna con versamento, emorragia interna, ustioni di secondo grado, danni non

immediatamente valutabili da folgorazione. E’ in terapia intensiva e le notizie lo danno comunque in prognosi riservata ma non in pericolo di vita.

Luca Abbà è un agricoltore che vive a Cels, dove da diversi anni ha deciso di ritornare a coltivare la terra. Abbà ha iniziato da tempo a condurre la sua battaglia contro l’alta velocità, diventando in breve tempo il leader del Comitato No Tav Alta Valle. I famigliari, gli amici, i conoscenti ma soprattutto tutti quei colleghi che nel corso degli ultimi anni, insieme a lui, avevano dato inizio a questa battaglia per tutelare il proprio territorio dall’arrivo dell’alta velocità sono stati sconvolti dalla notizia e accorsi in ospedale, davanti al quale questa notte vi sarà una veglia di solidarietà, mentre le iniziative si stanno moltiplicando in tutta Italia. La Valsusa è in rivolta, le comunicazioni stradali e autostradali sono completamente bloccate. Tutta l’Italia civile si sta mobilitando in solidarietà a Luca ed ai resistenti NOTAV.

Nel frattempo, nella Baita in Val Clarea a ridosso del non-cantiere in fase di allargamento, quindici ragazzi resistenti si sono chiusi dentro per impedirne l’abbattimento con le ruspe. Si temono azioni estreme che possano metterli in pericolo. Questo blitz militare è l’esempio di come s’intende la democrazia da parte dei propugnatori del TAV: senza alcuna copertura legale, militarmente, disprezzando anche la vita umana. A questi quindici ragazzi, a tutti i cittadini che in queste ore si oppongono con ogni mezzo a questa barbarie, raccomandiamo la massima prudenza, dato che la nuova direttiva TAV appare chiara: passeranno sui nostri corpi. Pavimenteremo la strada del Progresso, noi assurde forme di vita, distendendoci per farlo procedere sempre più veloce

LEGGI L’ULTIMORA:
DELEGAZIONE NO TAV AMMESSA NEL COMUNE DI TORINO

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Facebook, i falsi scoop e le ipotesi di complotto

fBIl social network più popolare del web continua a fare notizia, anche se non si capisce se sia uno scoop o una bufala. Il tabloid britannico Sunday Times ha lanciato dalle sue colonne un’accusa a Facebook, smentita subito dai vertici del popolare sito, anche perché il presunto scoop riguarderebbe in realtà fatti privi di una reale dimostrazione.


FACEBOOK E GLI SMS – Nell’articolo pubblicato dal giornale, si legge che il social network sarebbe in grado di leggere gli sms degli utenti – anche se non si capisce bene in che modo – violandone così la privacy. Si paventa addirittura il fatto che alcune aziende potrebbero controllare a distanza alcune funzioni degli smartphone, come ad esempio la fotocamera ma la notizia non è suffragata da alcuna prova reale e lascia decisamente il tempo che trova.


LA DIETROLOGIA – Il Sunday Times è però un tabloid, un genere di giornale nato per antonomasia al fine di creare rumore e fare notizia, fin troppo spesso a discapito della verità. Stavolta però l’accusa a Facebook sembra un po’ telefonata, perché c’è chi sospetta un complicato intreccio che vedrebbe protagonista il proprietario del giornale, il magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch. Il Sunday Times era recentemente finito sotto inchiesta per aver praticato lo spionaggio illegale, medesima ragione che aveva spinto News Of the World (sempre di proprietà di Murdoch) alla chiusura. Murdoch era anche proprietario di Myspace, il primo social network di successo, soppiantato però proprio dall’avvento del sito creato da Zuckerberg. Dietro quest’accusa ci sarebbe quindi un preciso tentativo di screditare Facebook agli occhi per dell’utenza, una specie di vendetta trasversale per rivendicare l’infelice esito di Myspace.

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Leader dei No Tav cade da un traliccio. E' in coma farmacologico

486297Era salito su quel traliccio per protestare contro gli espropri per l’ampliamento del cantiere dell’Alta velocità Torino-Lione a Chiomonte. Dal traliccio Luca Abbà, uno dei leader storici del Movimento No Tav della Val Susa, è caduto e le sue condizioni sono gravissime.

Dal 118 hanno comunicato che il leader dei No Tav ha riportato traumi da caduta e ustioni gravi da folgorazione. Abbà è stato portato in elicottero al Cto di Torino.

La Procura di Torino ha già aperto un’inchiesta: il pm Giuseppe Ferrando arriverà in Val Susa per le indagini sull’incidente. Secondo una prima ricostruzione, questa mattina il leader dei No Tav è salito su un traliccio dell’alta tensione nei pressi della baita Clarea, luogo simbolo della protesta, superando l’area di sicurezza. Da lì, in collegamento con Radio Blackout, aveva spiegato: “Mi sono arrampicato sul traliccio dopo essere sfuggito ai controlli. La situazione è tranquilla e non vedo violenze. Sono riuscito a svincolare. Mi guardavano attoniti. Gliel’ho fatta sotto il naso un’altra volta”.

Soccorso dalle forze dell’ordine e trasportato immediatamente a Torino, Abbà è in coma farmacologico. In serata potrebbe essere trasferito in terapia intensiva.

Gli attivisti, che da anni si oppongono alla realizzazione dell’Alta velocità, si erano radunati nei pressi della baita Clarea ieri sera, dopo una riunione del coordinamento del movimento. A Chiomonte sono infatti iniziati i lavori per l’ampliamento del cantiere della Tav Torino-Lione. L’area in cui gli operai della Lyon Turin Ferroviarie stanno lavorando per installare le reti di recinzione, è stata individuata “d’interesse strategico nazionale” in base alle indicazioni del Cipe e comprende anche la baita della Clarea.

Secondo i legali del movimento No Tav, l’occupazione dei terreni del cantiere di Chiomonte per l’esproprio è “una vera e propria emergenza democratica”. All’agenzia Ansa hanno dichiarato che “Ltf si è presentata nuovamente soltanto con un’ordinanza prefettizia, in palese violazione dell’articolo 2 del Testo unico di Pubblica Sicurezza, che prescrive quella procedura soltanto in casi di estrema urgenza, che qui non vi sono. Presenteremo ricorso al Tar del Piemonte”.

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Stipendi italiani: tra i più bassi d’Europa!

Eurostat logo RGB 60

L’Eurostat (Istituto di statistica europeo) ha rilevato a seguito di un’analisi relativa ai redditi dell’anno 2009 che l’Italia è tra i paesi europei con gli stipendi medi annui più bassi. L’Italia avrebbe una situazione salariale addirittura peggiore di quella greca. Lo stipendio medio lordo in Italia è, infatti, di 23.400 euro, poco più della metà di quello tedesco che è di 41.000. Inferiori all’Italia sono solo i salari medi di Malta, Portogallo Slovacchia e Slovenia.

Il ministro del lavoro Elsa Fornero ha commentato i dati nella giornata di ieri affermando che bisognerà “valorizzare la flessibilità buona e puntare a contratti che siano stabili ma contrastare quella flessibilità che ha invece portato a un precariato diffuso, soprattutto dai giovani”. Ha inoltre affermato che il lavoro del governo a tal riguardo è ineccepibile e che auspica a un aumento della produttività.

Ancora più inquietante dei dati sui redditi medi sono sicuramente quelli sui tassi di crescita degli stessi. Dal 2005 ad oggi gli stipendi medi sono cresciuti del 3,3%, essendo inferiori ai tassi di inflazione. In quasi tutti gli altri paesi d’Europa invece i tassi sono stati sensibilmente più elevati, sia nei paesi che partivano da condizioni meno floride (Spagna +29%, Portogallo +22%) sia per quelli già complessivamente “ricchi” (Germania +6%, Francia +10%)

L’analisi comparata dei dati non può che spaventare anche alla luce del tasso di disoccupazione giovanile che si attesta al 29.4% (fonte ISTAT) e ai dati, relativi all’ultimo trimestre del 2011, sul PIL del paese che segnalano una preoccupante decrescita di circa l’1%. L’ossimoro di una “flessibilità stabile” in questi termini sembra una soluzione troppo vaga e non chiarita a sufficienza. Le dichiarazioni ufficiali del governo sembrano non convincere ancora e viaggiare in quella sottile nebbiolina del vago, che ci impedisce di capirne a fondo le intenzioni e a rimanere a strizzare gli occhi alla ricerca di una soluzione chiara all’orizzonte.

Ecco nel dettaglio le tabelle del “Labour Market Statistics” da cui sono stati tratti i dati :


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Perché è fallito il capitalismo? La "storia" di Johnny Capital

Pubblicato il 26 febbraio 2012

Siamo ormai inondati da criptiche e incessanti notizie riguardanti la cosiddetta “crisi finanziaria”, senza che però i termini della questione ci siano mai chiariti in modo esauriente ed esaustivo. Per chi non ha confidenza con l’economia, il messaggio trasmesso dai media, risulta di volta in volta una mescola di simboli e terminologie incomprensibili, condite dall’idea che il singolo mezzo di informazione ha intenzione di trasmettere all’utente. Lo scopo di quest’articolo e dei successivi sarà di spiegare in termini chiari tutti quei fenomeni finanziari, che per la loro difficoltà, si rimettono spesso al ruolo di arma demagogica nella mani di chi sa governarne le sfaccettature.

Come primo elemento di analisi, prenderemo in considerazione il sistema economico vigente nelle maggiori economie mondiali e il modo in cui lo stesso si sia evoluto negli ultimi decenni determinando un improvviso crollo delle attività economiche. Nelle maggiori economie occidentali, così come in Cina a seguito della fine del regime comunista, a vigere è un sistema economico di tipo capitalista o misto. Tale sistema prevede che lo stato intervenga in chiave sempre più residuale e minore, secondo i paesi, all’interno del sistema economico, lasciando che siano la concorrenza e il libero mercato a stabilire le produzioni e le sorti delle varie industrie private. L’intervento dello stato si occupa per lo più di “proteggere” le maggiori compagnie dai mercati esteri concorrenti, attraverso agevolazioni fiscali, barriere alle importazioni e ammortizzatori sociali quali la “cassa integrazione”. Il primo ossimoro di questo sistema è già chiaro arrivati a questo punto. Infatti, il libero mercato che tanto è auspicato delle organizzazioni internazionali preposte, viene contrastato dall’interventismo statale, ogni volta che una crisi mette a rischio la sussistenza delle maggiori aziende del paese. Questo è ciò che è accaduto una volta che la crisi finanziaria si è palesemente manifestata nell’economia reale. Infatti, come chiarito da dati della WorldBank e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, tutte le maggiori economie hanno ridotto i traffici internazionali attraverso la reintroduzione di dazi, e sovvenzionando fiscalmente le compagnie in maggiore difficoltà. Mediamente nel mondo dopo il 2008 i traffici commerciali tra paesi si sono ridotti del 25% e il PIL mondiale ha subito una contrattura generale, mantenuta bassa solo dalla crescita inversa di alcune economie emergenti.

Che cosa ha portato però a queste contraddizioni? Qual’è stato il fattore che ha costretto il fiorente capitalismo occidentale degli anni’80 a un tonfo così rumoroso? Una delle tesi, che è quella che esamineremo oggi, è quella che vede nelle variazioni dell’obiettivo d’impresa la causa della fine della solidità del sistema.

Vi racconterò a tal proposito la storia del fantomatico Johnny Capital. Johnny era un ragazzotto americano di Detroit, figlio del proprietario di un’azienda che forniva alla General Motors componenti meccanici. Gli affari andavano a gonfie vele quando Capital nel ’91 ereditò l’azienda. Prima del boom economico d’inizio anni ’90 lo scopo della “Capital Stuff ltd.” era di espandersi quanto più possibile, ricercando nuovi mercati dove vendere il proprio prodotto e reinvestendo gli introiti per aumentare sempre di più il volume e la produzione. Questa visione del capitalismo permetteva a Johnny, a livello di principio, di avere una linea temporale delle proprie azioni molto lunga, e faceva in modo che il consiglio d’amministrazione vedesse come un proprio interesse anche un investimento che facesse vedere i propri frutti quando loro sarebbero già stati comodamente in pensione, seduti su una sdraio a bere Cuba Libre su una spiaggia alle Maldive.

All’improvviso le Maldive non erano più sufficienti, e il Cuba Libre era diventato acqua per il corroso esofago del nostro imprenditore, così che lo stesso male che stava distruggendo la democrazia infettò immediatamente anche il settore economico. La malattia in questione colpisce il tempo, e la sua concezione, facendo si che non si sia più capaci di agire per il futuro, e pensando a scopi che siano diversi dal guadagno immediato. Nella democrazia questo male era dovuto alla competizione elettorale e ai pochi controlli istituzionali sul prelievo di denaro pubblico, in economia invece la doccia fredda che provocò la febbre inguaribile fu l’entrata dei manager e degli amministratori nelle azioni delle aziende. Una mattina di un caldo giugno del 1994 Johnny si svegliò sempre più desideroso di introiti immediati, ed entrato in sede, dopo il suo abituale cognac, annunciò ai suoi consiglieri che da allora sarebbero stati pagati con percentuali dei titoli della società, pensando così di spronarli ulteriormente verso la crescita costante della liquidità. Possedendo parte dei dividendi (percentuali del valore dell’azienda) gli amministratori da quel momento personificarono gli obiettivi aziendali, plasmandoli sull’interesse immediato del “prendi i soldi e scappa”. In pochi anni questa riduzione delle prospettive ha fatto diventare la prima gloriosa società del nostro rampollo solo un recipienti di danaro, che aspetta il momento più proficuo per moltiplicare il valore dei profitti, senza pensare agli effetti a lungo termine di queste scelte.

Quando si parla di “Fast Food” e di una popolazione che va di fretta ignoriamo che lo stesso principio stia regolando tutto il mondo che ci circonda. Il mondo è una strada dove c’è un Mac Donald sempre aperto, che per 10 dollari ti rimpilza di cibo fino ad esplodere, con a fianco un ristorante italiano, che ci mette un’ora a servirti e con 10 dollari ti serve una sola porzione di spigola al guazzetto. Johnny ha fame e pensa solo a riempirsi lo stomaco, con la paura che se si aspetta un’ora, si sarà scavalcati da orde di ragazzini (le economie emergenti) che spazzoleranno via tutto il cibo lasciandolo a bocca asciutta sul proprio lettino alle Maldive, con quel bicchiere di Cuba Libre che ora contiene solo due dita di acqua gelida. Oggi il signor Capital ha 56 anni e vive in una cittadina di case basse a schiera e reticolati regolari di strade che si incrociano ogni isolato e gira ancora con la sua Mustang, ormai rattoppata e deterrente, come la vecchietta che ispirava tenerezza a Pirandello nelle sue descrizioni del concetto dell’ironia, vivendo con i soldi della cessione della sua attività e accecato dalla convinzione che ad avergli messo lo sgambetto sia stato un cinesino del Guangdong, e non la sua avarizia spropositata.

Johnny Capital è un personaggio di fantasia, la sua storia purtroppo invece è quella di un’economia in declino, e di un’interessante teoria che vede proprio nella sua ingordigia esponenziale, una delle cause di un ossimorico dimagrimento della stessa.

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Banda della Magliana: "il secco" torna in carcere

15153804 arrestato-enrico-nicoletti-il-contabile-della-banda-della-magliana-8C’erano una volta “le batterie”. Pugni di uomini specializzati nei furti d’auto, nello svolgimento degli appartamenti, nelle rapine a mano armata o in qualche altro particolare tipo di reato, si incontravano dalle parti dell’Alberone per cedere la merce ai ricettatori, procurarsi una pistola, progettare colpi che, alla fine dei giochi, non arricchivano nessuno ma ingrassavano il carcere e consentivano ai malandrini di sbarcare il lunario. Quei “borgatari” rozzi e indisciplinati, cresciuti mangiando pane e piombo alla scuola dei “ragazzi di vita”, divennero presto un’agenzia criminale, il centro indiscusso della malavita romana, il braccio armato di ambigue operazioni politiche e finanziarie, un’organizzazione capace di macinare profitti ammazzando qualsiasi persona tanto stupida o coraggiosa da mettersi sulla sua strada e poi garantirsi l’impunità comprando giudici e poliziotti, periti medici e guardie carcerarie. Divennero la “banda della Magliana”.

I soldi chiamano i soldi, nella vita quotidiana come in quella criminale e il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante Della Rovere, diede morale al gruppo per fare il tanto sospirato salto di qualità. Il giro di droga divenne presto l’affare più redditizio e la “banda della Magliana” conquistò il monopolio dello spaccio nella capitale e il denaro, nelle casse dei “bravi ragazzi”, entrò letteralmente a fiumi.

Come in tutte le attività, criminali o meno, il denaro deve essere gestito e per gestirlo serviva un cassiere. I capi della banda scelsero Enrico Nicoletti. Per il giudice Otello Lupacchini, «Nicoletti funziona[va] come una banca, nel senso che svolge[va] un’attività di depositi e prestiti e attraverso una serie di operazioni di oculato reinvestimento moltiplica[va] i capitali investiti dell’organizzazione».

192859012-eede6c48-97ca-448b-b72c-7bbede785e94I “borgatari” però, alla fine, pagano sempre ed uno dopo l’altro i membri della banda finirono uccisi, si pentirono o vennero incarcerati. Fu quest’ultimo il destino del “secco” (questo è il soprannome dato a Nicoletti dal Giudice Giancarlo De Cataldo, autore de Romanzo criminale), al quale confiscarono inoltre l’equivalente di oltre 100 milioni di euro.

Scontata la pena, questa mattina però, a Roma, i carabinieri hanno notificato ad Enrico Nicoletti, un ordine di carcerazione di sei anni per pene residue. All’arrivo delle forze dell’ordine Nicoletti, 75 anni, ha avuto un malore ed è stato portato al pronto soccorso dell’ospedale di Tor Vergata.

«Sono vecchio. Non voglio morire in carcere» ha detto, davanti all’abitazione in cui viveva con i figli, nei primi momenti del suo arresto. Dopo alcuni accertamenti in Policlinico durati circa sei ore è stato però dimesso e portato nel carcere di Rebibbia.

L’ex cassiere della Banda non aveva a carico alcuna misura cautelare. L’attuale provvedimento di carcerazione arriva dalla Corte d’Appello per un cumulo di pene su vari reati per i quali Nicoletti era stato condannato in passato: usura, estorsione e rapine ”con aggravanti della pluralità dei soggetti concorrenti”. L’uomo era stato arrestato il 6 luglio dello scorso anno insieme al suo braccio destro, Alessio Monselles, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione. L’arresto era l’ultimo atto dell’operazione “Il gioco è fatto”. Secondo le indagini Nicoletti era a capo dell’associazione criminale, che, millantando credito, truffava ignare vittime interessate all’acquisto di beni immobili oggetto di aste giudiziarie. Tra le vendite fantasma anche il palazzo della questura di Roma, la casa dove abitava l’ex giocatore della Roma Cafu e una quota della villa di Sergio Cragnotti.

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Senegal: Wade contro tutti, elezioni a rischio

Da oggi, circa 5,3 milioni di elettori senegalesi sono chiamati ad esprimere il voto per il primo turno delle elezioni presidenziali che vedono in corsa ben 14 candidati, tra i quali il presidente uscente Abdoulaye Wade, la cui ricandidatura è stata capace di creare nell’ultimo mese, un clima di tensione piuttosto drammatico.

senegal-largeLe urne si sono aperte questa mattina alle 8 (le 9 in Italia) ed il voto, è considerato da molti una delle prove politiche più dure dall’indipendenza del paese africano, soprattutto perché ai cittadini è stato negato il diritto a manifestare contro il terzo mandato dell’85enne presidente uscente, atto per altro considerato anti-costituzionale. Non era giovanissimo, aveva già 74 anni, Abdoulaye Wade quando, nel marzo 2000, è stato eletto presidente del Senegal ponendo fine a quarant’anni d’interrotto governo socialista: i suoi predecessori Léopold Sédar Senghor e Abdou Diouf avevano “regnato” un ventennio a testa. Tempi passati. Il liberale Wade, che ha vinto sbandierando la parola d’ordine “sopi” (cambiamento in lingua wolof), si dimostra, a sua volta, quanto mai resistente a farsi da parte (da Il Fatto Quotidiano).

La sua volontà di ricandidarsi (per poi passare il testimone al figlio Karim, già titolare di diversi ministeri) ha infiammato le piazze suscitando durissime reazioni, soprattutto nei giovani del movimento Y’en a marre, ispirati a mobilitarsi dal gruppo rap Keur Gui. I primi violenti scontri hanno incendiato la capitale Dakar nel giugno scorso e ottenuto il risultato di bloccare un progetto di legge che avrebbe permesso a Wade la rielezione con solo il 25% dei voti. Da allora fra il vecchio presidente e il largo fronte della contestazione che si riconosce nel M23, movimento 23 giugno, è guerra aperta. Senza esclusione di morti. «Nelle ultime due settimane 14 senegalesi sono stati uccisi dalla polizia per ordine del presidente e del suo ministro degli Interni» denuncia il 23 febbraio in un comizio Moustapha Niasse, candidato della lista Benno Siggil Senegal e, nel 2000, alleato di Wade che lo nominò primo ministro.

Ieri, alla vigilia del primo turno delle elezioni, i roghi, le cariche della polizia e i gas lacrimogeni si sono moltiplicati: un vero e proprio territorio di guerra.

A provocare la rabbia della piazza ha contribuito anche l’esclusione dalla competizione di Youssou N’Dour, icona pop e attivista dell’opposizione, che a gennaio aveva lasciato la scena musicale per presentarsi alle elezioni. Il cantante aveva lanciato la sua candidatura per “il bene” del Paese, ma si è visto tagliato fuori. Come se non bastasse, ieri, durante una manifestazione non autorizzata dalle autorità, Youssou N’dour (una sorta di uomo-mito in Senegal) è stato ferito alla gamba sinistra. Asciutta la dichiarazione del suo portavoce, che non punta il dito contro nessuno, anche se è scontato immaginare che il ferimento della pop star internazionale sia stato causato dalle forze di sicurezza del presidente Wade.

Dopo settimane di manifestazioni dell’opposizione contro la ricandidatura di Wade – già eletto nel 2000 e nel 2007 – il movimento ‘Fed Up’ (che in inglese indica ‘chi ne ha avuto abbastanza, è stanco, stufo’) ha sollecitato gli elettori a non boicottare le urne, ma votare in modo massiccio contro il presidente uscente.

Come sostiene Boubacar Boris Diop, romanziere e drammaturgo senegalese, «il peggio deve ancora venire».

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Reggia di Carditello: maxipetizione in 4 lingue

Real Sito

SAN TAMMARO (CE) – L’associazione partenopea “Orange Revolution”, capitanata dall’architetto Raffaella Forgione, attraverso il gruppo creato sul social network, Facebook, gli Orange, ha avviato e sostenuto una petizione internazionale con il preciso scopo di “salvare” la Reggia di Carditello che rischia seriamente di finire nelle mani sbagliate e, dunque, di vedere i terreni annessi al Real Sito come appetibili discariche abusive all’interno delle quali poter sversare di tutto.

L’istanza, redatta in quattro lingue e, cioè, italiano, inglese, francese e spagnolo, sta facendo il giro di tutto il mondo riempiendo di significato e valore le parole della presidente Forgione: “La Sovrintendenza non ha fatto nulla, la politica è stata a guardare: forse aspettano che la Reggia costi davvero poco, così “qualcuno” potrà acquistarla? Noi no, non stiamo a guardare”.

La proposta, come obiettivo, mira a costituire una cordata di comuni che, attraverso l’esborso di un euro per abitante, raggiunga la cifra necessaria per l’acquisto della Reggia neoclassica. Potrebbe sembrare un proposito impossibile da realizzare eppure, in pochi giorni, 6000 firme hanno dimostrato una volontà generale di adesione a quella che è una battaglia innanzitutto culturale che, però, ha come primo nemico il tempo.

La Tenuta verrà venduta all’asta il 15 ed il 29 marzo, rispettivamente in prima ed in seconda seduta, al prezzo già ribassato, essendoci state già due udienze di vendita andate deserte, pari a 15 milioni di euro, cifra che potrebbe subite un ulteriore deprezzamento ed arrivare a 10 milioni di euro.

La presidente dell’associazione “Orange Revolution”, per non lasciare nulla di intentato, ha anche inviato una lettera-appello alla soprintendente dei beni artistici e culturali di Caserta e Benevento, Paola Raffaella David chiedendo accoratamente la partecipazione della Soprintendenza al “primo consorzio di enti pubblici, mai realizzato in Italia, per acquistare la Reggia, restaurarla, aprirla al pubblico e trasformarla in risorsa economica, nel rispetto dei vincoli ambientali ed architettonici.”

Allo stato, non se ne conosce la risposta, ma una cosa è purtroppo certa: il degrado incombe e di recente ai furti, all’incuria ed al degrado avanzato si è aggiunto il crollo del tetto dell’ala all’estremo margine sinistro con la conseguenza che la casina di caccia della tenuta borbonica non esiste più.

La domanda è semplice: fin dove si vuole arrivare? Fino a che punto ci si vuole spingere? Quando i buoi scappano è inutile chiudere la stalla… pertanto basta al rimbalzo delle responsabilità, basta alle accuse reciproche, basta alle parole vuote…

Esistono associazioni culturali, intellettuali, storici ed anche alcuni politici che hanno a cuore le sorti del Carditello, e questo è un dato di fatto, per cui affinché effettivamente il Real Sito possa assumere un ruolo centrale nell’economia di “Terra di Lavoro” si deve ridare lustro alla storia ed alla cultura che rappresenta… da molti Comuni arrivano le prime risposte che prevedono uno schema di convenzioni da sottoporre ai vari consigli comunali. Questo prova che si può fare qualcosa, che esistono strade valide da percorrere, ebbene bisogna persistere!

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